venerdì 25 febbraio 2011

Europa

Sono un'europeista convinta ed entusiasta. Credo che l'Europa unità sia una delle conquiste più belle degli ultimi decenni, se non secoli. E non potrebbe essere diversamente visto che anche io, italiana in Germania, sono tra i tanti che quotidianamente sperimentano il significato concreto della libertà di movimento, del reciproco riconoscimento tra Stati, della moneta unica, delle collaborazioni cross border. Ma proprio perché credo nell'Europa e sono orgogliosa di questa visione, di questa conquista, non condivido il comportamento assunto dalle istituzioni Europee verso il problema dei flussi migratori che investono le nostre coste, e che a seguito della crisi in Nord Africa stanno assumendo, e assumeranno, dimensioni davvero straordinarie. 
Già in passato, e ripetutamente, l'Europa se ne è lavata le mani e ci ha lasciati soli. E questo perché i Paesi più influenti e autorevoli (l'Europa è sì unita, ma si sa, ci sono vari livelli di peso e vari toni di voce) non sono toccati in prima linea dal problema, visto che la loro posizione geografica li mette al riparo dai barconi. Il problema è stato declassato a problema nazionale: il che vuole dire, ciascun Paese si gestisca i suoi immigrati da solo. Tanto possono arrivare solo da chi ha le coste a portata di barca, quindi non in Germania (sempre la prima a parlare politically correct e poi...) , non in Olanda o in Belgio, non in Svezia o su di là... 

Anche ora che il Nord Africa sta esplodendo e la gente, poveraccia, si organizza a fuggire, l'Europa fa la buona e si appella alo spirito umanitario, ai principi della carità e dell'accoglienza, ai diritti umani. Il che è giustissimo. Ma i buoni sentimenti vanno accompagnati da aiuti concreti, da un intento di vera collaborazione, da un progetto internazionale di aiuto e supporto, da un piano internazionale di assistenza. Altrimenti è solo ipocrisia. Non basta dire: gli italiani non possono rifiutare i profughi, devo accoglierli, ospitarli e quant'altro, perché tanto si sa che quella gente può arrivare solo fino in Italia e poi fermarsi stremata. Occorre che anche chi non vede i propri confini varcati da profughi e sfollati si senta responsabile e si dia da fare per intervenire, per aiutare l'Italia a fare fronte a quella che è ben più di un'emergenza nazionale. Un piede in Italia è dopotutto un piede in Europa, e dunque, Europa, fatti vedere. Dove sei? Perché sei così ritratta e "sulle tue"?


Non vorrai mica farmi intendere che il tuo rifiuto a essere collaborativa è (anche) una reazione di dispetto verso un Paese, ma prima ancora verso un governo e un Presidente del Consiglio che troppo spesso si dimostrano non all'altezza della situazione (a cominciare dall'amicizia con il leader libico)? Davvero sei disposta a barattare la grandezza della tua identità in costruzione per fare un dispetto politico? Davvero hai così bassa considerazione di te sessa? 
Se così fosse, la tua sconfitta sarebbe doppia. Perché perderesti credibilità di fronte a quelle persone in fuga dal massacro, e perderesti la fiducia dei tanti italiani che vedono in te la "casa" del loro futuro.
Se non è così, fai sentire la tua voce e il tuo aiuto, fai vivere l'ideale che ti ha creata. Gli italiani sono tra i popoli più generosi che ci siano, e non si risparmieranno nemmeno questa volta. Ma non si può fronteggiare da soli un esodo di massa.

Costanza Alpina 

martedì 15 febbraio 2011

Era il 2008...

A maggior ragione ora che Silvio Berlusconi è stato rinviato a giudizio anche per prostituzione minorile, si fa tanto parlare di donne, corpo, e politica. Siamo nel 2011. Eppure già tre anni fa, nel 2008, si scriveva così: 
L'eclatante nomina [di Mara Carfagna a Ministro], più che essere un segno dell’avanzata delle donne nella società e nei ruoli che contano, dell’accrescimento della loro presenza e autorevolezza e del potenziamento della loro consapevolezza anche politica, si dimostri una prova della progressiva conversione della politica in spettacolo mediatico. O se vogliamo essere ancora più eloquenti: della decadenza della politica a fenomeno di spettacolo, a sistema di spettacolarizzazione coatta. Stesse logiche, stesse regole, stesse priorità.
[...]
La sua storia, dagli esordi alla gloria del momento, e proprio nel suo svolgersi mediante un passaggio a mondi ed esperienze diversi da quelle di origine, cioè dallo spettacolo alla politica, corporeizza la concezione che questo governo ha della donna. 



[...]
E' quantomeno sintomatico che una ex show girl venga nominata gerente italico dell’alto valore della parità. L’atto in sé, senza riferimenti alle competenze che Mara certamente sarà in grado di dimostrare, denota con chiarezza, anche se sottile, quale impari concezione della donna sia dominante in quella parte politica. La quale battezza a garante del principio dell’equità tra generi una donna che nel suo genere aveva raggiunto l’apice del successo: è la celebrazione della donna tutta corpo e curve, della donna regina dell’esibizione e del divertissement leggero, subalterna e dipendente, se non altro dall’immagine meticolosamente confezionata per vellicare l’orgoglio macho dell’uomo spettatore. Ecco perché sulla seggiola delle Pari Opportunità la bella Mara si trova perfettamente nel suo elemento. Dopotutto non ha avuto proprio lei l’opportunità di mettersi alla pari con il genere maschile? Naturalmente, ça va sans dire, in misura proporzionale alle indiscutibili diseguaglianze di genere. Un simile talento va additato ad esempio. E dunque via, reverenza al Ministro.
Evviva evviva, ripetiamo in coro, a ciascuno il suo.
Per il bene di tutti.
Soprattutto degli uomini.
[...]

La nomina di Mara Carfagna a Ministro della Pari Opportunità è come una vittoria di Pirro delle donne italiane: fittizia, inconsistente, addirittura controproducente. Certamente simbolica, ma di un simbolismo rovesciato. È come un contentino elargito con tenerezza, non lo si mette in dubbio, ma in fondo anche con una buona dose di compassione e ben nutrito autocompiacimento. Significa nominare una donna per omaggiare il maschilismo.



Costanza Alpina

Italiani all'estero

Nel giorno della mobilitazione nazionale a difesa della dignità (delle donne e dell'Italia), leggo sul Corriere della Sera l'intervento della corrispondente da New York, Alessandra Farkas. La quale si dice tentata, nell'anno di ricorrenza dei 150. anni dell'Unità nazionale, di rinunciare alla cittadinanza italiana: il motivo, immaginabile, è la difficoltà a riconoscersi nel Paese che aveva accolto la sua famiglia scampata all'Olocausto e che insieme all'ospitalità le aveva dato un futuro. Un Paese, scrive, disonorato dalla sua stessa classe politica, incapace di dimostrarsi serio e affidabile, incompreso (e incomprensibile) nella sua assurdità, e per questo considerato irredimibile.
Il sentimento non è solo della giornalista. Ma, ed è lei stessa a riconoscerlo, di tanti italiani sparsi negli States e nel mondo che guardano con crescente insofferenza e distacco gli scandali di un'Italia lontana, sempre più lontana, sempre meno sentita come propria origine, tanto meno come meta di ritorno.

E' così. Chi vive all'estero, ormai da anni, deve fronteggiare la curiosità, l'incredulità, lo scetticismo, talvolta l'ironia e la supponenza. Sempre deve convivere con un senso di disagio, accresciuto spesso dal trovarsi quotidianamente a vivere in realtà che confina ai sogni peggiori, o alle più trash delle commedie, i fatti diventati routine a casa nostra.

Eppure: sarebbe una soluzione  rinunciare alla cittadinanza come segno di protesta? a cosa porterebbe? certo, forse in coscienza la dissociazione arrecherebbe un senso di alleggerimento, e pubblicamente potrebbe essere proposto e riconosciuto come segno di distinzione. Ma nell'economia del tutto sarebbe un gesto simbolico sì, ma pressoché inutile. Anzi, non sarebbe piuttosto una forma di esilio volontario, e quindi, come ogni esilio, una limitazione, una perdita, una sconfitta?
Chi fugge o si nasconde, è sempre destinato a perdere. Chi rifiuta il dialogo e talvolta lo scontro è un perdente già in partenza. Solo chi rimane e insiste, ha speranza di vincere, per quanto lungo possa essere il confronto. Insistiamo dunque nel chiedere una politica decente e decorosa, nel rivendicare una giustizia sociale efficace, nel pretendere una patria credibile. E facciamolo da italiani: con i gesti concreti e quotidiani con i quali viviamo le nostre vite all'estero, con la nostra vitalità e brillantezza, con la capacità di lavoro e la nostra umanità. Facciamo sì che la nostra italianità sia un valore aggiunto anche all'estero. Facciamo in modo di mostrare che gli italiani sono più affidabili e coerenti di chi li rappresenta e che l'Italia può essere meglio della sua politica.

Costanza Alpina

martedì 8 febbraio 2011

Donne


Certo che ci saremo. 
Con l'animo, la testa, l'intento, le buone intenzioni. Certo che ci saremo alla giornata di mobilitazione delle donne indetta per domenica 13 febbraio 2011.
Come non potremmo?

Siamo state tra le prime a individuare il problema, a denunciarlo, a dire che non erano casi singoli ma un vero e proprio sistema di potere. Abbiamo profetizzato ciò che i mormorii delle intercettazioni lasciano ora trapelare: che cioè il caso di una soubrette diventata Ministro in un battibaleno avrebbe fatto scuola e sarebbe stato preso da esempio. Abbiamo patito pubblicamente per la dignità ferita delle donne, per quelle "vittorie di Pirro" annunciate tra lo scintillio di riprese televisive e sorrisi (talvolta rifatti) da copertina. Avevamo sollevato il problema del merito e della corrispondenza tra donna e corpo, tra femminilità e potere. Avevamo, avevamo...
Poi sono venuti gli scoop sul "velinismo", le euro-candidature, il "ciarpame" dell'imperatore e gli harem del "sultano", poi ancora Noemi e le farfalline pendenti, le feste in Sardegna e quelle di Arcore, i condomini di Milano e le candidature regionali, e infine, come una ciliegina sulla torta, il caso di Ruby (e le altre).

E ora è venuto quindi il momento di indignarsi, di mostrare pubblicamente la propria indignazione, di invitare tutte a indignarsi. 
Così si scrive, così si dice. Ed è giusto sia così. La libertà d'opinione è stata guadagnata anche e soprattutto per far valere istanze collettive legittime e diffusamente sentite contro l'arroganza dei numeri, contro l'apparato del potere, contro, anche, la prepotenza, o la stupidità, degli uomini.
E quindi avanti donne, alla riscossa. Ma di che cosa? cosa abbiamo da conquistare se non saranno gli uomini i primi a comprendere il senso della nostra protesta, del nostro orgoglio? cosa abbiamo da ri-conquistare se gli uomini continueranno a vedere in noi dei corpi, o sennò a guardarci come aliene inacidite se non corrisponderemo facilmente alle loro pulsioni? cosa abbiamo da vantare se non saranno anche gli uomini a pretendere la dignità delle donne?

Ha ragione Maria Nadotti a esprimere perplessità (anzi, dissenso) di fronte all'appello alla mobilitazione. C'è il rischio che si generi una moralistica  contrapposizione tra donne per bene e donne per male, donne vere e "quelle altre", tra angeli del focolare e ragazze a ore, tra anime e corpi. 
Non è di un nuovo moralismo che abbiamo bisogno: soprattutto perché il moralismo è sterile riguardo alle nuove generazioni, che sono quelle più ribelli ma anche più vulnerabili, quindi più bisognose di poche, buone regole e tanti, ottimi esempi.

Per questo è giusto rendersi visibili, far sentire la propria voglia di una buona, decente politica, il desiderio di una nuova aria etica, la propria insofferenza per le grandi immagini di piccole donne che vengono diffuse dai media e prodotte o incentivate dai potenti. 
Ma facciamo in modo, domenica e i giorni seguenti, di non essere sole, facciamo in modo che non sia una partita giocata in casa, tra di noi. Facciamo in modo che gli uomini non si sentano tenuti fuori, e quindi che alla fine sia per loro più facile dire: "eccole, le zitelle invidiose", piuttosto che seguire il nostro passo dicendo "caspita, guarda che donne!".

Costanza Alpina